Una settimana in montagna: quando il silenzio fa emergere le verità nascoste

Una settimana trascorsa tra le montagne con mia sorella e mia nipote. Doveva essere un momento di relax, di riscoperta dei legami familiari, di pace. E invece, nel silenzio di quei luoghi, sono emerse delle consapevolezze che, forse, erano sempre state lì ad aspettarmi.

Non è che prima non me ne fossi mai accorta – sarebbe ingenuo pensarlo. Ma questa volta la differenza tra noi due si è manifestata con una chiarezza quasi brutale. Io, come sempre, ad adattarmi. A trovare soluzioni quando qualcosa non funzionava, a sistemare, a rendere tutto scorrevole per gli altri. Lei, come sempre, ad aspettare che le cose si aggiustassero da sole, o meglio, che qualcun altro – io – se ne occupasse.

## Il peso dell'adattamento

Mi sono resa conto che questa dinamica viene da lontano, dalle nostre radici. Crescendo, io ho imparato la solitudine come una seconda lingua. Ho dovuto arrangiarmi, trovare da sola le risposte, sviluppare quella resilienza che si impara solo quando non hai alternative. Lei no. Lei ha sempre avuto tutto servito, tutto dovuto, tutto pronto.

E forse è questo il punto: mentre io lottavo per non deludere, per essere all'altezza di aspettative che sembravano sempre più alte di me, lei cresceva nella certezza che tutto le spettasse di diritto. Io cercavo disperatamente di essere migliore, di non commettere errori, di non dare motivo per essere sgridata. E puntualmente non ero mai abbastanza.

## Il peso della perfezione impossibile

Era un circolo vizioso spietato: più mi impegnavo per essere perfetta, più ogni piccolo errore diventava una delusione cocente. Ogni sbaglio era un fallimento personale, ogni critica una conferma della mia inadeguatezza. Mentre se mia sorella faceva qualcosa di giusto, veniva celebrata. Se sbagliava, c'ero sempre io a coprire, a giustificare, a rimediare.

Le urla arrivavano sempre per me. Gli errori erano sempre i miei, anche quando non lo erano. È come se fossi nata con il compito di essere il capro espiatorio della famiglia, quella su cui scaricare frustrazioni e aspettative irrealistiche.

## La montagna che insegna

In quella settimana ho capito che questa dinamica non è cambiata. Lei continua ad aspettare che gli altri si adattino ai suoi bisogni, che le soluzioni arrivino dall'esterno. Io continuo a essere quella che trova il modo di far funzionare le cose, che si piega, che si adatta.

Ma forse, per la prima volta, ho anche capito che questa non è una condanna. La capacità di adattarmi, che ho sviluppato nella solitudine e nella necessità, è diventata una forza. So cavarmela da sola, so trovare soluzioni, so resistere. Sono abilità che molti non hanno, che mia sorella non ha.

## Verso una nuova consapevolezza

Non sto dicendo che sia giusto o sbagliato quello che è successo nella nostra infanzia. Non sto nemmeno cercando di attribuire colpe. Sto semplicemente riconoscendo che siamo diventate due persone molto diverse a causa di esperienze molto diverse.

Quella settimana in montagna mi ha insegnato che posso continuare ad essere quella che si adatta e che trova soluzioni, ma non perché sia un obbligo o una condanna. Posso farlo come scelta consapevole, sapendo che questa è una mia forza, non una debolezza.

E forse, è ora di smettere di aspettarmi che mia sorella cambi. È quello che è, come io sono quello che sono. La differenza è che ora lo so, e questa consapevolezza mi rende libera di scegliere come reagire, invece di subire semplicemente quello che accade.

La montagna, con il suo silenzio, mi ha regalato una verità scomoda ma liberatoria: non devo più dimostrare niente a nessuno. Non devo più essere perfetta per essere degna d'amore. Posso semplicemente essere me stessa, con tutti i miei adattamenti e le mie forze conquistate a caro prezzo. 

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